Pubblichiamo un articolo di alemannaro, uscito sul numero 30 (anno 104) del settimanale anarchico Umanità Nova (www.umanitanova.orguenne_redazione@federazioneanarchica.org), che parla di noi dopo 9 mesi dal 10 gennaio facendo un bilancio delle conseguenze che questo accordo ha comportato, sia per noi che per l’azienda.

A nove mesi dal 10 gennaio, data nella quale è stato sottoscritto un accordo nazionale tra i dirigenti di RFI, gruppo FS, e molte delle sigle sindacali dei trasporti (cgil, cisi, uil, ugl, fast, orsa), che avrebbe dovuto rappresentare l’inizio di una profonda riorganizzazione di tutto il comparto della manutenzione infrastruttura ferroviaria, e a quattro mesi dal 3 giugno, data in cui l’azienda ha dato formalmente il via a tale ristrutturazione che, aldilà delle altisonanti dichiarazioni di facciata e delle parole d’ordine sbandierate come spot pubblicitari, si è concretizzata quasi esclusivamente con un cambio orario per gli addetti alla manutenzione, è forse possibile stilare un primo provvisorio bilancio delle conseguenze che questo accordo ha comportato, sia in termini di raggiungimento degli obiettivi aziendali dichiarati, sia per quanto riguarda le ricadute a livello di sicurezza e di qualità di vita degli operatori.
Iniziamo col precisare (vedi UN 20/2024) che l’accordo del 10 gennaio per diventare effettivo avrebbe dovuto essere ratificato da specifici tavoli territoriali nei quali i dirigenti aziendali regionali e le rappresentanze sindacali, una volta valutate le specificità locali, la possibilità di attuazione, le criticità da affrontare e le modifiche da apportare, avrebbero dovuto sancire la realizzabilità e la convenienza. In molti territori questi tavoli hanno raggiunto una sintesi, in altri non è stato possibile arrivare a una posizione condivisa, e si è arrivati ad una rottura delle trattative. A partire dal 3 giugno l’azienda ha fatto partire il nuovo orario di lavoro sia nelle regioni “allineate”, applicando gli accordi territoriali, sia in quelle “ribelli” imponendo in maniera unilaterale un turno, basato su cicli ripetitivi di ventotto giorni organizzato in nastri orari continuativi di sette ore e trentasei minuti altemati tra mattina, pomeriggio e notte, sette giorni su sette.
Il turno imposto unilateralmente, ribattezzato non senza ragione “turno gulag”, è stato studiato in modo da risultare il più penalizzante possibile per il personale. Alcune “perle” di questo orario sono, ad esempio, gli undici giorni di lavoro consecutivi, nessun fine settimana libero, le notti con inizio nel giorno di riposo, le sessanta ore distribuite in otto giorni senza riposi intermedi, la doppia notte consecutiva, le quattro notti in una settimana, l’impossibilita di usufruire della pausa pranzo o cena anche quando l’orario termina dopo le 21 e 30 o le 16. Non contenta di tutto questo l’azienda si è spinta oltre negando tutta una serie di diritti elementari sanciti dal contratto o dalla legge, come ad esempio la fruizione dei permessi ad ore o un minimo di flessibilità in entrata, dieci minuti, necessaria ai lavoratori che giungono in treno per non perdere l’intera giornata in caso di ritardo dello stesso o tentando di discriminare i lavoratori che hanno diritto alla 104. La possibilità poi da parte dei dirigenti responsabili delle varie unità manutentive, di poter spostare il turno con solo 48 ore di preavviso ha reso di fatto impossibile organizzare e gestire la propria vita privata e familiare o prendere qualsiasi tipo di impegno con la certezza di poterlo rispettare, in un clima di perenne incertezza e precarietà, prova di tutto ciò è il fatto che sempre più frequentemente ragazzi assunti da poco sono costretti a licenziarsi, cosa impensabile fino a qualche anno fa, pagando le salate penali previste, e famiglie nelle quali entrambi i coniugi lavorano si trovano nell’impossibilità di accudire figli piccoli o parenti anziani. A questo si è aggiunta la necessità, per coprire l’intero arco orario, di dividere le squadre di manutenzione, prima formate mediamente da una decina di operatori, in gruppi più piccoli, mediamente tre persone, un numero assolutamente insufficiente per compiere la benché minima attività, difficoltà aggravata dal fatto che molti neoassunti non posseggono le abilitazioni necessarie per poter svolgere autonomamente le lavorazioni programmate; e la contemporanea forzata esigenza di far spostare il personale anche di centinaia di chilometri, specie di notte, per arrivare alle località di servizio e poter cosi raggiungere un numero adeguato.
La timida risposta dei sindacati regionali verso questa imposizione unilaterale, timidezza suscitata in parte dalle pressioni ricevute dai nazionali desiderosi di perfezionare l’accordo del 10 gennaio, si è concretizzata quasi esclusivamente in tutta una serie di proteste formali e richieste di spiegazioni, alle quali i vertici di RFI hanno risposto con un assordante silenzio, un impenetrabile muro di gomma e un continuo scarico di responsabilità verso il gradino superiore della scala gerarchica, in un estenuante gioco di scatole cinesi o matrioske che, alla lunga, non può che frustrare ogni tentativo di ricerca di un interlocutore. La mancanza di risposte e chiarimenti è andata di pari passo con il massiccio ricorso a provvedimenti e sanzioni disciplinari usati come deterrente contro ogni comportamento ritenuto non adeguato e come avvertimento per i soggetti meno propensi ad accettare passivamente imposizioni arbitrarie, una sorta di liste di proscrizione per i “bambini cattivi” a cui hanno fatto da contraltare liste di “prostituzione” per quelli “buoni”: un giudizio redatto dai dirigenti responsabili delle unità manutentive nei riguardi dei vari lavoratori, giudizio a cui sarà legata parte della retribuzione. Lo scopo di questi turni “gulag” o punitivi appare abbastanza chiaro, cercare di vincere la resistenza dei lavoratori, stremandoli fisicamente e psicologicamente in modo da far accettare un accordo leggermente migliore e chiudere la partita, poco importa se cosi facendo se ne mette a repentaglio la salute, costringendoli a turni che non consentono un riposo adeguato, la sicurezza, imponendo lunghi spostamenti per raggiungere i luoghi di lavoro, facendoli operare in impianti che non conoscono, spesso senza un’adeguata preparazione tecnica e di esperienza e la possibilità di vivere adeguatamente la propria quotidianità.
Paradossalmente poi questa nuova articolazione dell’orario e questa organizzazione in squadre ridotte quantitativamente inadeguate qualitativamente, non è assolutamente funzionale nemmeno dal punto di vista aziendale, la manutenzione ciclica, quella che di fatto previene gli incidenti e i guasti, è praticamente azzerata a causa della mancanza di personale, dell’inadeguatezza dei mezzi a disposizione e della sempre più ridotta disponibilità di spazi orari liberi da treni, gli inconvenienti alla circolazione e i consistenti ritardi di questo ultimo periodo rischiano di essere solo un primo avvertimento di quello che potrebbe succedere prossimamente; tutte le risorse sono dirottate verso la scorta alle ditte appaltatrici, incaricate dei lavori di rinnovo, in un modello ormai generalizzato che prevede la perdita di professionalità, competenza e di conseguenza potere contrattuale, da parte dei ferrovieri, in nome di una deresponsabilizzazione aziendale in tema di sicurezza dei lavoratori, demandata ai preposti delle ditte stesse.
La risposta dei lavoratori a queste azioni è stata ferma e numericamente molto rilevante. Ci sono state iniziative di vario genere e diversi scioperi indetti dai sindacati non firmatari dell’accordo, USB, COBAS e ANLM, a cui hanno aderito la maggioranza degli iscritti delle sigle firmatarie, che dal canto loro hanno continuato a difendere l’accordo di gennaio, destando non pochi sospetti tra i manutentori che, è bene chiarirlo, non sono arroccati a difesa di un orario che debba rimanere invariato in eterno, e sono pronti a discutere di eventuali modifiche, dettate però da esigenze effettive: l’eventuale cambio orario deve avvenire solo se giustificato da condizioni reali e non immaginarie, e deve soprattutto essere l’ultimo passo di una riorganizzazione che preveda prima di questo tutta una serie di condizioni imprescindibili, assunzione di personale, qualificazione dello stesso, acquisto di una flotta di mezzi adeguata alle necessità manutentive, ricerca di spazi orari adeguati, garanzia dei diritti di legge e soprattutto consentire “la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” come dichiarato nell’accordo del 10 gennaio… La condizione per poter tornare a trattare deve quindi essere il ritiro dell’accordo di gennaio e il ritomo ala situazione ante 3 giugno, non è possibile infatti sedersi ad un tavolo sulla base di un ricatto che, spogliato di tutta la sua sovrastruttura è sintetizzabile con “vi massacreremo con un turno disumano fino a quando non accetterete le condizioni di nostro gradimento”, soprattutto adesso che il ricorso contro l’azienda per comportamento antisindacale è stato giudicato illegittimo proprio a causa dell’accordo in questione, che, aldilà delle buone intenzioni che aveva, se ne aveva, si è rivelato un cavallo di Troia con cui RFI ha messo in ginocchio i lavoratori con la più o meno apparente complicità dei sindacati firmatari.
Le armi a disposizione per arrivare alla cancellazione di questo accordo, vista anche la legislazione in materia di sciopero nel servizio pubblico (che è tale quando ci sono da impedire manifestazioni, ma non quando c’è da garantire il diritto alla mobilità, specie dei poco remunerativi pendolari) e il sempre disinvolto ricorso alla precettazione da parte dello zelante ministro delle infrastrutture, sono sempre le stesse: “disobbedienza civile”, cercando di attuare comportamenti che mettano in difficoltà l’azienda (come ad esempio tornare per un periodo a timbrare e fare il vecchio orario) e “obbedienza incivile”, cioè una ferma, rigida e intransigente osservanza di tutti i regolamenti e le norme che di fatto paralizzerebbe ogni attività. Chiaramente tutto ciò può avere un margine di successo solo se a intraprendere queste iniziative sarà un numero consistente di operatori, perché come sempre, e ancora una volta, la differenza vera la farà la maggioranza silenziosa, gli “indifferenti” di Gramsci e gli “ignavi” di Dante. È necessario sbarazzarsi dell’apatia, dell’abitudine, della ricerca di stratagemmi privati o scorciatoie, che se da una parte possono alleggerire la situazione dei singoli finiscono inevitabilmente dall’altra per danneggiare tutti gli altri, la soluzione deve essere collettiva o non sarà una soluzione: “Nessun uomo può emanciparsi altrimenti che emancipando con lui tutti gli uomini che lo circondano” (Bakunin). La paura di perdere quel poco che ci sembra di avere non deve essere un alibi per rinunciare a lottare e cercare di ottenere qualcosa di migliore, la paura è l’arma più potente in mano a chi tenta di non farci alzare la testa e tenerci in un perenne stato di sottomissione, non possiamo accontentarci della vita che altri scelgono per noi, come dice Thoreau: “Molti uomini hanno vita di quieta disperazione: non vi rassegnate a questo, ribellatevi, non affogatevi nella pigrizia mentale, guardatevi intorno. Osate cambiare, cercate nuove strade”.
Una domanda però rimane inevasa sullo sfondo, perché tanto accanimento nel perseguire un modello di organizzazione che di fatto si riduce a un cambio orario, tra l’altro nemmeno funzionale? Il primo motivo, diciamo di breve termine è dichiaratamente quello di non perdere “le ingenti risorse previste da piano di investimenti del PNRR”, dichiarazione che con la solita lungimiranza della classe dirigente italiana si traduce in una specie di assalto alla diligenza, senza nessuna preoccupazione di creare le condizioni di crescita strutturale che consentirebbero di far sentire anche nel lungo periodo i propri effetti sia in termini di sviluppo economico che di occupazione, ma limitandosi a cercare di accaparrarsi più fondi possibili senza verificare la sostenibilità futura di questo modello. Il sospetto è però che ci sia la volontà di privatizzare almeno parzialmente la società, e di rendere più appetibile il pacchetto agli eventuali compratori offrendo loro dei lavoratori completamente svincolati da ogni regolamentazione in materia di orario di lavoro e completamente a disposizione a seconda delle esigenze del “padrone”. Allargando un po lo sguardo è abbastanza facile intuire come questo attacco alla classe operaia di un settore fino a questo momento “privilegiato” da questo punto di vista, possa essere solo il primo passo verso un tentativo più generalizzato di erosione a tutta una serie di diritti in materia di tutela del lavoro, che ha avuto inizio da diversi anni, basti pensare alle varie deregolamentazioni sulla flessibilità e sui “finti contratti autonomi” e all’abrogazione dell’articolo 18, ma che ora rischia di diventare sempre più aggressiva e mettere a repentaglio tutta una serie di conquiste che il movimento operaio ha ottenuto con grandi sacrifici nel corso del secolo passato.

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